Anche se inizialmente potrà sembrarlo, questo non è un post sull’Europeo. Tutt’altro. A parlare delle lotte, delle medaglie, di chi, insomma, si è messo in gioco andando a competere ci penserà, se vorrà, il Mestre. Non sono certo io a doverlo fare. Questo vuole solamente essere un post sugli stati d’animo che una vittoria, o una sconfitta, possono generare in noi e su quanto le nostre reazioni, se non ragionate, possano essere pericolose per noi e per la nostra squadra.
Per farlo avrò bisogno di un esempio, e visto che giudizi non amo darne su nessuno, dovrò partire da me stesso.
Della lotta, ripeto, è inutile parlarne. L’unica cosa che serve sapere è che ho perso. Oggi, a 7 giorni dal campionato, la mia testa è ancora un flusso di pensieri e recriminazioni in continuo movimento: “potevo fare così, ho sbagliato a girarmi da quel lato, ho mollato la presa quando non dovevo” ecc ecc. Una volta sceso dal tatami mi sono venute le lacrime agli occhi, il mio unico pensiero è stato: “due ore e mezzo di Jiu-Jitsu tutti i giorni tranne lunedì e sabato, quando oltre all’allenamento canonico mi sparavo anche un’ora e mezza di preparazione atletica, per venire qua e dopo 7 minuti andare a farmi la doccia. Tanti sacrifici per niente!!”.
Tutti noi sappiamo cosa significa non vedere ragazza e amici per settimane e dividere la propria giornata tra lavoro e tatami. Uscire di casa alle 7.00 di mattina per rientrarci alle 22.30 e non avere neanche la forza di cucinare. Ma è proprio pensare cose come: “era meglio non venire” o “tanta fatica per nulla” che fa male non solo a noi ma, di riflesso, a tutti i nostri fratelli. Non c’è nulla di più sbagliato e mi scuso sinceramente per averlo pensato anche solo per un minuto. Essere triste per la propria sconfitta significa non riuscire a gioire per le vittorie degli altri, non incoraggiare uno dei tuoi quando tocca a lui; significa non sforzarsi di capire davvero quali punti deboli quella sconfitta ha messo a nudo e, di conseguenza, non mettersi al lavoro quanto prima. Niente, di ciò che viene fatto in palestra, è lavoro sprecato.
Di contro, anche le vittorie andrebbero, secondo la mia personale opinione, gestite nel modo giusto. Nessuna medaglia dovrebbe autorizzare qualcuno a inondare di critiche un compagno d’accademia perché ha perso o a riempire di consigli, spesso neanche utili, un lottatore più esperto solo perché anche lui, a differenza vostra, non ha fatto risultato. Le medaglie non sono niente, mentre la stima e l’affetto di quelli senza i quali tu non avresti imparato nulla sono il tuo pane.
Ogni tanto occorre riconsiderare tutti i fattori che compongono un campionato: l’abilità tecnica, la preparazione atletica, ma anche la fortuna e la condizione mentale con cui, quel giorno, saliamo sulla materassina. In fondo, la vittoria e la sconfitta corrono sullo stesso binario, solamente a correnti alternate. L’amicizia e il sentirsi tutti parte della stessa famiglia no, quelli ci devono essere sempre. Ragion per cui, non giudichiamo inutilmente e diamo consigli solo se siamo, su quello specifico argomento, in grado di farlo. Tanto, per dirci cosa si deve fare in determinate situazioni e cosa invece abbiamo sbagliato c’è una persona apposta che, non a caso, è l’unica cintura nera dell’accademia.
Per farlo avrò bisogno di un esempio, e visto che giudizi non amo darne su nessuno, dovrò partire da me stesso.
Della lotta, ripeto, è inutile parlarne. L’unica cosa che serve sapere è che ho perso. Oggi, a 7 giorni dal campionato, la mia testa è ancora un flusso di pensieri e recriminazioni in continuo movimento: “potevo fare così, ho sbagliato a girarmi da quel lato, ho mollato la presa quando non dovevo” ecc ecc. Una volta sceso dal tatami mi sono venute le lacrime agli occhi, il mio unico pensiero è stato: “due ore e mezzo di Jiu-Jitsu tutti i giorni tranne lunedì e sabato, quando oltre all’allenamento canonico mi sparavo anche un’ora e mezza di preparazione atletica, per venire qua e dopo 7 minuti andare a farmi la doccia. Tanti sacrifici per niente!!”.
Tutti noi sappiamo cosa significa non vedere ragazza e amici per settimane e dividere la propria giornata tra lavoro e tatami. Uscire di casa alle 7.00 di mattina per rientrarci alle 22.30 e non avere neanche la forza di cucinare. Ma è proprio pensare cose come: “era meglio non venire” o “tanta fatica per nulla” che fa male non solo a noi ma, di riflesso, a tutti i nostri fratelli. Non c’è nulla di più sbagliato e mi scuso sinceramente per averlo pensato anche solo per un minuto. Essere triste per la propria sconfitta significa non riuscire a gioire per le vittorie degli altri, non incoraggiare uno dei tuoi quando tocca a lui; significa non sforzarsi di capire davvero quali punti deboli quella sconfitta ha messo a nudo e, di conseguenza, non mettersi al lavoro quanto prima. Niente, di ciò che viene fatto in palestra, è lavoro sprecato.
Di contro, anche le vittorie andrebbero, secondo la mia personale opinione, gestite nel modo giusto. Nessuna medaglia dovrebbe autorizzare qualcuno a inondare di critiche un compagno d’accademia perché ha perso o a riempire di consigli, spesso neanche utili, un lottatore più esperto solo perché anche lui, a differenza vostra, non ha fatto risultato. Le medaglie non sono niente, mentre la stima e l’affetto di quelli senza i quali tu non avresti imparato nulla sono il tuo pane.
Ogni tanto occorre riconsiderare tutti i fattori che compongono un campionato: l’abilità tecnica, la preparazione atletica, ma anche la fortuna e la condizione mentale con cui, quel giorno, saliamo sulla materassina. In fondo, la vittoria e la sconfitta corrono sullo stesso binario, solamente a correnti alternate. L’amicizia e il sentirsi tutti parte della stessa famiglia no, quelli ci devono essere sempre. Ragion per cui, non giudichiamo inutilmente e diamo consigli solo se siamo, su quello specifico argomento, in grado di farlo. Tanto, per dirci cosa si deve fare in determinate situazioni e cosa invece abbiamo sbagliato c’è una persona apposta che, non a caso, è l’unica cintura nera dell’accademia.
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