In un'epoca dominata dalla tecnologia la cultura del combattimento resiste ancora, riempiendo le palestre di praticanti.
Ma la domanda da farsi è: "Per quale motivo le persone, in una società che oggi consente livelli di sicurezza nemmeno concepibili solo pochi secoli fa, continuino a voler imparare a combattere?!"
Sono le strutture culturali profonde che spingono gli uomini ad agire e pensare; queste devono essere immaginate come corsi d’acqua, che in alcuni periodi della storia si uniscono come tanti affluenti, in altri sprofondano sottoterra in falde acquifere, per riemergere alla luce del sole solo molto tempo dopo. La cultura del combattimento e della lotta ha radici immemori, in ogni parte del mondo, e ricompare in diverse forme in ogni luogo e in ogni tempo.
Immaginiamo l’uomo moderno come una di quelle cattedrali costruite sui resti di basiliche più antiche. All’interno di quell’incredibile prodotto artistico, apparentemente frutto del secolo in cui è stato costruito, ritroviamo fondamenta e pilastri di altre epoche, spesso contrastanti tra loro, sulle quali è edificato il presente. Così, come nell’antichità si faceva un uso della lotta funzionale (in battaglia e per la difesa senza armi), ludico (il puro divertimento di lottare e l’intrattenimento degli spettatori), sportivo (la competizione e la cura del corpo) ed educativo (la trasmissione dei valori, la resistenza al dolore, il sacrificio, lo sviluppo dell’intelletto e dell’astuzia), oggi riscontriamo nei praticanti i frammenti di questi antichi scopi, riadattati alla cornice moderna. Oggi l’aspetto funzionale appare, più verosimilmente, dove è necessario tutelare la sicurezza nella società (nella formazione delle forze dell’ordine) e dove questa tutela rischia di non potersi verificare tempestivamente (nella difesa personale dei cittadini). Gli aspetti ludici, sportivi ed educativi si ripresentano invece in modalità molto simile al passato.
"Ma per quale motivo molte persone non sentono per nulla il bisogno di lottare, altre lo provano come fosse una grande fiamma che le accompagna tutta la vita e per altre ancora questo fuoco si spegne dopo qualche tempo?!"
Una prospettiva che ci consente di riflettere su questo interrogativo viene data dalla teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan (2000). Il nostro comportamento nasce da motivazioni profonde, da immaginarsi su un continuum che va dall’assenza di motivazione, alla soddisfazione assoluta dovuta alla pratica dell’attività. I passaggi intermedi, nei quali molti praticanti si fermano, sono quelli che consentono di passare da una parte all’altra del continuum.
Primo passaggio: la motivazione nasce da rinforzi, punizioni, minacce e desiderio di compiacere gli altri. La lotta in sè è priva di senso per la persona, se tolta da un contesto reale in cui utilizzarla. Un bambino costretto dai genitori ad allenarsi, senza che ne senta assolutamente il bisogno, può ritrovarsi in questa descrizione, così come una persona che si sente minacciata e vuole imparare a difendersi. Prevalgono aspetti educativi , come la trasmissione dei valori, e funzionali, come la difesa personale vissuta con allarmismo.
Secondo passaggio: la persona inizia a punirsi e a premiarsi da sola, senza l’intervento di agenti esterni. La minaccia è rappresentata dal senso di colpa, e il premio dalla gratificazione. Allenarsi e combattere ha senso nella misura in cui la persona riesce a ridurre lo stress e il senso di colpa con la pratica, sia per una maggiore sensazione di sicurezza, sia per una migliore forma fisica. L’aspetto sportivo comprende quindi esclusivamente la cura del corpo, e più difficilmente la competizione.
Terzo passaggio: la pratica, l’allenamento, il combattimento acquisiscono senso per la persona, poichè hanno valore per il gruppo in cui si identifica. Le persone che il praticante stima, per cui prova affetto e che prende come modello si allenano e combattono, e così per somigliare più a loro e sentirsi accettato, egli stesso sente il bisogno di allenarsi e lottare. Questa ansia di affiliazione è spesso accompagnata dal desiderio di grandi successi nelle competizioni. Le gare sono affrontate in modo ansiogeno, in quanto l’obiettivo del partecipante verte più sul risultato (la medaglia) che sulla performance. Vuole dimostrare agli altri di essere degno del gruppo, facendo trionfare la squadra.
Quarto passaggio: la lotta acquisisce senso perchè diventa espressione di sè: il praticante si identifica con l’attività stessa. Anche al di fuori del gruppo di allenamento, il praticante esibisce i valori della lotta in altri contesti e con altri gruppi sociali, svolgendo egli stesso la funzione educativa. Nello sport, l’attenzione si sporta dal risultato alla performance, riducendo così il livello di ansia. L’aspetto ludico, il divertimento di lottare, diventa parte integrante della pratica.
Quinto passaggio: con l’ultimo passaggio, la lotta non è più solo espressione di sè e del gruppo d’appartenenza, ma diviene parte integrante del sè. La lotta entra a far parte del lottatore e il lottatore diviene espressione della lotta. La pratica porta così a maggiore conoscenza di sè stessi, e l’attività stessa porta intrinsecamente piacere, nella dimensione ludica più genuina. A livello educativo, i valori sono diventati parte integrante della persona, e a livello sportivo la competizione è un’occasione per conoscersi, evolvere il proprio gioco e provare forti emozioni positive. Questo genere di praticante si presenta al campionato con un’alta attivazione che coincide più con l’eccitazione che con l’ansia: il più grande nemico è la noia, dovuta alla frustrazione di non sentirsi più in costante crescita. Per questo motivo è sempre in cerca di nuovi compagni di allenamento, competizioni e sfide, senza l’ossessione narcisistica di dover vincere e dimostrare di essere superiore agli altri. Il punto di riferimento del lottatore che lotta in modo autodeterminato, è solamente sè stesso.
Per approfondimenti:
Peter Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle "Annales" (1929-1989), Bari, Laterza, 2007
Ryan, R., & Deci, E.. (1985). Intrinsic motivation and self-determination in human behavior. New York: Plenum.
Ryan, R., & Deci, E. (2000). Self-determination theory and the facilitation of intrinsic motivation, social development, and well-being. American Psychologist, 55, 68-78.
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